Bob Dylan @ Zénith (Paris, 20.04.2017).
Una decina d’anni fa, non ricordo la data esatta, ho già visto Bob Dylan allo Zénith di Parigi. In quel periodo mi capitava più spesso di seguirlo dal vivo, e di rado i concerti vedevano il pubblico seduto. Certamente al Palais des Congrès, due sere sempre a Parigi nel 2009, lo ricordo bene perché mi era capitato di scriverne, la security aveva ricacciato a forza i fan dalle transenne.
Ma allo Zénith non mi era finora mai nemmeno capitato di vedere le sedie, peraltro scomode, nella fossa. Il prezzo ormai altissimo del biglietto (ma è una tendenza generale, quelli di Nick Cave non sono più bassi di questi tempi) e questa configurazione fanno sì che il pubblico sia composto di molti signori attempati, come Bob d’altra parte, che certo non hanno alcuna intenzione di alzarsi. Almeno fino al bis, quando tutti saranno in piedi ad applaudire. D’altra parte il conferimento del Nobel ha riportato Bob Dylan all’attenzione di molti. I seimila posti dello Zénith si sono venduti rapidamente, e la sera successiva ci sarà un secondo concerto parigino, sempre sold-out.
Le Zénith si riempie mentre Bob Dylan inizia il concerto
Bob Dylan e la sua band escono alle otto in punto, mentre molti spettatori stanno ancora entrando. La splendida Things Have Changed ne soffre un po’. Ed è un peccato, perché mi piace di più delle versioni di due grandi classici come Don’t Think Twice, It’s All Right e Highway 61 Revisited. La prima avrebbe bisogno di una voce più modulata, che Dylan oggi non possiede più. La seconda avrebbe bisogno di un pubblico in piedi che si agita, non riesco a pensarla per questa platea educata. Ad aggravare la situazione c’è il fatto che, essendo proibite le fotografie per volontà dell’artista, il personale dello Zénith si aggira con fare fermo e cortese, redarguendo quanti osano alzare un apparecchietto. Non è proprio un’atmosfera da concerto rock, insomma.
Bob Dylan fra piano e centro del palco
Ma non fa niente perché arrivano due splendide versioni di Beyond Here Lies Nothin’ e Pay In Blood. Insieme a una jazzata Duquesne Whistle e al blues di Early Roman Kings dicono della presenza importante di Tempest e Together Through Life nella scaletta. La band si adatta bene, sotto le luci calde della scenografia, a interpretare questa versione più tradizionalista del repertorio dylaniano. Poi Bob si alza dal piano dov’è restato sinora, a volte seduto a volte in piedi, e si piazza a centro palco per Melancholy Mood da Fallen Angels. È bello vederlo così, improbabile crooner, mentre interpreta con passione la canzone resa celebre da Frank Sinatra.
La scaletta rivela le preferenze attuali di Bob Dylan
Numerosi, nel corso del concerto, sono i brani estratti dai recenti dischi di cover. E’ una scelta ovvia, anche se per chi scrive penalizzante. Non solo durante un grande classico del suo periodo d’oro, come l’ottimamente eseguita Desolation Row, ma anche di fronte alla splendida e intensa Love Sick, eseguita al centro del palco, mi capita di pensare che le sue canzoni sono superiori rispetto agli standard del passato pre-rock al quale ormai sembra essere rivolto. Anzi, sono canzoni che hanno rappresentato alla fine degli anni Sessanta un salto di qualità assoluto rispetto a quanto c’era prima nella musica pop. Poi alla fine del set arriva una magnifica interpretazione di Autumn Leaves e per un momento dubito. Chissà che non abbia ragione lui, anche stavolta?