Ritornano i Calexico, al solito “diversi ma uguali”.
I Calexico sono una garanzia. La loro più che ventennale carriera discografica non ha mai avuto grandi sbalzi qualitativi. Stabilito che The Black Light (1998) è quasi unanimemente considerato il loro capolavoro, per quanto concerne il resto della produzione la preferenza per un titolo o un altro si lega a gusti personali. Giusto per fare un paio di nomi, Carried To Dust è il catalogo meglio articolato di suoni ed emozioni del gruppo, mentre Algiers si fa ricordare come affettuoso omaggio alla New Orleans post-alluvione.
Al tempo stesso occorre dire che la band di Tucson, Arizona, ha sempre mancato il colpo del KO emotivo, del disco che ti lascia davvero stordito e, magari solo per una mezz’ora, ti cambia la vita. Qui si cerca di migliorare piccoli dettagli della vita, e non è poco davvero.
La continuità dei Calexico
Un’altra considerazione va fatta. Per usare un’espressione in voga, i Calexico sono da tempo “diversi ma uguali”. I ben riconoscibili tratti sonori degli inizi – il “mariachi indie” dal sapore cinematografico, la passione per la malinconia da tequila, la tradizione che diventa modernariato – si sono lentamente evoluti nel corso degli anni. Nessuno cambio di direzione drammatico per Joey Burns e John Convertino (i due padri fondatori), piuttosto una costante curiosità per le strade secondarie e i percorsi alternativi. Anche qui però mai che arrivi il vero spiazzamento, la sorpresa che ti lascia attonito anche a rischio del disastro. E il rischio del cliché è sempre dietro l’angolo (che, in verità non è mai stato svoltato).
The Thread That Keeps Us tra conferme e novità ‘rock’
Ecco dunque che, nel bene e nel male, The Thread That Keeps Us non è poi così diverso dal precedente Edge Of The Sun, e nemmeno da Algiers. Tuttavia, forse perché registrato di fronte al mare della California, mostra una solarità e un’ampiezza nuove. Oltre a una maggiore compattezza a tratti quasi rock.
Visto che il lavoro s’intitola “il filo che ci lega”, il primo filo che lo tiene insieme è proprio questa fisicità ben percepibile nell’iniziale End Of The World With You e in altri episodi quali Voices In The Field e Eyes Wide Awake. Sono canzoni potenti e struggenti che fanno pensare agli U2 (ma anche ai Neville Brothers) prodotti da Daniel Lanois. Canzoni che, tra chitarrone e fiati, meriterebbero di emozionare le grandi platee assai più dei Coldplay. Il guaio è che gli altri due tentativi di “arena rock” sono abbastanza fallimentari, imitazioni un po’ maldestre di Talking Heads (Another Space) e – wow! – ZZ Top (Dead In The Water).
Il resto del materiale funziona abbastanza bene. Bridge To Nowhere suona suadente e misteriosa, mentre la classica cartolina dal Messico Flores Y Tamales ha il pregio di dimostrare che la musica latina non è, almeno in qualche caso, la più zarra al mondo.
Un secondo “filo” del progetto si può rintracciare nei testi, ovvero l’idea, retorica ma nobile, della bellezza eterna che vince sul tristo presente. “L’amore nell’epoca degli estremi/ Non c’è nulla di meglio da fare/ Che gettare al vento tutti i miti/ E camminare fino all’inizio della fine del mondo con te”.
La sorpresa del bonus disc di The Thread That Keeps Us
Ecco dunque che The Thread That Keeps Us va considerato come un lavoro piuttosto bello (al solito), ma non pazzesco (al solito). Poi però c’è il bonus cd. Come nei due lavori precedenti, anche qui il dischino aggiunto ha una sua specificità, decisamente fascinosa. Il sole californiano lascia spazio alle notti nel deserto dei primi Calexico, con una dimensione stavolta trasognata, quasi metafisica. E sempre nel bonus disc compaiono i due brani migliori in assoluto dell’intero album, End Of The Night e Lost Inside, dove davvero si balla con i fantasmi come dice il testo.
Ultima notazione: se consideriamo che Burns e Convertino sono due signori ormai di mezza età simpatici, a modo e bravissimi dal vivo, come si fa a non voler bene ai Calexico?
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