Grandaddy – Last Place.

I Grandaddy e il loro nuovo album chiamato Last Place. Cosa pensare? Ecco, si potrebbe dire che è una questione di stati d’animo, di umori momentanei, di difficoltà personali incontrate oppure superate. I dischi dove sotto la pelle corrono più evidenti le vene del sentimento funzionano a questo modo. Un momento sembrano pallidi, risaputi, ripetitivi; il momento successivo scintillano struggenti e assoluti. Naturalmente la seconda versione è quella che – romanticamente – si auspicherebbe più vicina alla verità oggettiva. La quale, in realtà non esiste. Quantomeno quando si parla di musica.
Jason Lytle ripropone, dopo 10 anni, la sigla Grandaddy
Last Place rientra proprio in quest’altalenante categoria sonica. Oggettivamente è un buon disco che, a livello di contenuti, poco si discosta da quelli che Jason Lytle ha inciso sia come Grandaddy sia, in tempi più recenti, a proprio nome. Sempre oggettivamente, non pare all’altezza del mirabile The Sopthware Slump (2000) e nemmeno di Under The Western Freeway (1997), il lavoro che aveva fatto diventare Lytle e i Grandaddy sghembe star del circuito alt-rock.
Poi la prospettiva emotiva per qualche ragione cambia. E allora poco importa se l’artigianale fusione di sentimentalismo melodico, tecnologia da pattumiera informatica e gusto per il pop radiofonico ’80 in chiave nerd poco sia cambiata rispetto a quei tempi là. Una cosa sola conta: le canzoni suonano ancora una volta coinvolgenti, malinconiche, umane (nonostante le tante ‘macchine’ usate) e con un filo di debolezza che induce alla solidarietà. Più o meno l’effetto suscitato, poco tempo fa, da Little By Little dei Sodastream.
In Last Place a convincere è l’umanità delle canzoni
Piace molto il pezzo da cugini a modo dei Pixies (I Don’t Wanna Live Here Anymore), fa uno strano effetto quello che ricorda Elliott Smith (That’s What You Get For Gettin’ Out Of Bed) e commuove il ritorno del tenero robot Jed the Humanoid in una nuova versione denominata Jed The 4th (che finisce in una clinica per alcolisti). Ci vorrebbe a questo punto, il terzo ascolto, quello del giusto mezzo. Ma no, viva il pathos, ancorché sbilenco, e basta così.
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