Da World Music all’omonimo Goat, il misterioso cammino della band svedese.
Sono passati dodici anni dal folgorante debutto dei Goat, World Music. Da allora la misteriosa band svedese, che fa risalire la sua origine a Korpilombolo, cittadina del Nord del Paese, è riuscita a mantenere l’anonimato, avvolgendo la propria storia in un bizzarro e volutamente confuso mix di leggenda e verità. Sarà vero che la loro Korpilombolo è stata sede di riti voodoo? Comunque sia ascoltare la loro musica ti dà la sensazione di stare assistendo a un rituale magico e selvaggio, qualcosa di ancestrale che prorompe nella contemporaneità a ricordarci che la vita è un ciclo continuo di morte e rinascita, come simboleggiato dall’ouroboro, il serpente che si morde la coda, a cui è dedicata anche una traccia.
La Rocket Recordings pubblica Goat
Goat, uscito ugualmente per la britannica Rocket Recordings, è il settimo disco in studio per la band e, dopo la colonna sonora per The Gallows Pole e la sterzata folk di Medicine, segna un ritorno alle sonorità tribali e psichedeliche che poi sono quelle più consone alla nostra ‘capra’. L’album è un ribollire di frenetici ritmi funk, di chitarre fuzz che si avvinghiano voracemente su se stesse, di riff furiosamente ipnotici, di canti tribali urlati che sembrano usciti da allucinate sedute sciamaniche, e per noi ascoltatori non resta che abbandonarsi al loro delirante e trascinante rituale. Non c’è dubbio che i Goat abbiano saputo creare una musica personale e riconoscibile che rilegge la psichedelia con la lente delle musiche del mondo.
Otto canzoni
Otto tracce in tutto, si inizia con la scintillante One More Death, il tema della morte è molto presente nei loro dischi, ritmi e strumenti si accavallano con le voci e le chitarre si impennano in ardite distorsioni. Con la trascinante Goatbrain dominata da un giro di basso ipnotico siamo dalle parti di un funk allucinato che esplode nel finale con percussioni e fiati in primo piano. Si cambia registro con le sonorità orientali di Fools Journey che inizia con un flauto meditativo e con un arrangiamento insolitamente austero che avvolge il brano in un senso di mistero e misticismo, lo stesso che si respira più avanti nello stranito country di All Is One, il titolo chiaramente allude a temi tipici della trascendenza e del panteismo. Dollar Bill è un trionfo di wah wah che ti avvinghia nelle sue allucinate spire fra echi di kraut e di funk distorto e Frisco Beaver fra chitarre twang e percussioni ci trascina in una trance festosa.
Un finale che sorprende e un disco che riporta i Goat al trionfo degli esordi
Non sorprende che l’eclettismo della band e la capacità di attingere a diversi generi musicali li porti in Zombie a innestare campionamenti e ritmi hip hop e dub e a creare nei sette minuti della conclusiva Ouroboros un frenetico alternarsi di ritmi che spaziano dal funk, all’afrobeat, al breakbeat, mentre campionamenti di voci, loop di percussioni, basso e chitarre distorti, sassofoni ci fanno precipitare in un sabba selvaggio e ci chiedono soltanto di abbandonarci alle danze orchestrate dai nostri stravaganti stregoni. Se in passato i Goat avevano dato talvolta l’impressione di adagiarsi sugli allori, ora sono tornati in pista più in forma che mai e hanno realizzato il loro lavoro più convincente dai tempi del loro esordio.
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