Facciamo amicizia con i Lice di Wasteland: ne vale la pena.
Chi fossero i Lice di Wasteland – ammetto – lo ignoravo, prima di metter mano alla tastiera. Notizie, di questi colti e intelligenti barbari di Bristol, non se ne trovano granché. Gira e gira, è nel raschiare il fondo del barile della rete, che ci si imbatte in una loro intervista memorabile. Autodefinita la loro musica «rock letterario esoterico» o, a scelta, «disagio uditivo misantropico», alla domanda su che cosa ci si debba aspettare dal vivo dai Lice, la saggia risposta di questi giovani emergenti del circuito low-fi – «Niente, così sarai colpito sicuramente» – mi è parsa, per un attimo, far rivivere lo spirito che fu di quei mattacchioni dei Men At Work, che invitavano chi li criticava per come suonavano in studio ad andare a sentirli dal vivo, ché li sì, ne avrebbero viste delle belle. Ed ho pensato, lo confesso, che ciò era bene.

Caso e (loro) intelligenza vogliono però che i Lice i simpaticoni si contentino di farli fuori dallo studio di registrazione e soprattutto lontano dal palco, che non è il luogo di una stanca, rituale pagliacciata – alla Flaming Lips, per capirci – ma lo spazio sulfureo di una perpetua, infinita elaborazione di brani scritti, riscritti, aboliti, smontati, da capo ricostruiti e destinati, come il loro cavallo di battaglia, la cangiante Litte John Waynes, a mutare geneticamente ad ogni concerto. E ho iniziato a convincermi che ciò era (anche) meglio.
Un frullato perfetto
L’ascolto del loro ultimo lavoro mi ha tolto ogni dubbio ed ho deciso di credere. Districatisi agilmente negli ultimi cinque anni fra cassette ed EP, Wasteland: What Ails Our People Is Clear è l’approdo solido, per quanto non manchi di sconcertare, ad un territorio musicale il cui principio ordinatore è l’instabilità. Un piccolo regno nebbioso che si costruisce, si direbbe, sulla negazione della certezza, attraverso un dribbling costante fra i generi e le etichette musicali. I Lice non mirano all’equilibrio degli ingredienti, alla ricetta ponderata e millimetrica, ma a schizzare il loro frullato sulle pareti della cucina. Non cesellano il pezzo di calibrata misura, ma perseguono la costruzione di un discorso musicale ininterrotto, che chiede, anzi impone, un ascolto continuo ed integrale, di cui la registrazione è una tappa e non necessariamente la più compiuta.
L’orientamento complicato dei Lice di Wasteland
Wasteland è, prima ancora che una raccolta di canzoni, una suggestiva, ruvida e sincopata suite musicale che obbliga a chiedersi, di volta in volta, in quale diavolo di galassia sonora ci si sia svegliati; e non solo da una canzone all’altra, ma quasi sempre all’interno di ogni singola, benedetta canzone. Dal quasi noise di Conveyor ai continui cambi di scena ritmica di Espontàneo; dagli «orridi suoni industriali» di Pariah, passando per il post punk danzante di Persuader e Folla (con la conclusiva Clear, le vette del disco); dalla ruvida scorza un po’ metal un po’ hardcore di Arbiter alle dure sincopi prog di R.D.C.; dai monologhi per voce e distesa di chitarre risentite di Imposter e Deluge fino alle dilatazioni di Serata e Clear non si sa più a quali fantasmi musicali si vada stringendo la mano, se ai Birthday Party, ai Butthole Surfers, agli OMD, ai Metallica, ai Red Hot Chili Peppers o (mi si perdoni l’ardire) a Frank Zappa.
Nell’intervista che ce li ha rivelati i Lice hanno definito il loro mondo sonoro «trashy sound with his prog and metal influences» e viene voglia di dar loro ragione, perché la loro non è musica espansa – che ancora sto qui a chiedermi cosa sia – ma musica esplosa, perché esploso è il nostro tempo e, in assenza del regno della certezza, no cin resta che un imperfetto, surreale ricamo postmoderno. E a noi va bene anche così, ché siamo gente che si accontenta. E a noi, i Lice, piacciono.
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