I Low di Double Negative cantano un mondo distorto.

La lamentazione è la solita: il rock ha perso centralità. Una volta i dischi rumorosi facevano, appunto, rumore. Anche mediatico. Inutile ricordare, ad esempio, lo scalpore suscitato nel 1970 da Plastic Ono Band nella versione Yoko Ono. E poi, ovviamente Psychocandy (1985) dei Jesus & Mary Chain. In entrambi i casi a turbare era lo sfregio alle belle forme, ma anche il rapporto dialettico fra melodia e anti-melodia (*).
La premessa serve da introduzione a Double Negative, ultima fatica dei Low, per il quale verrebbe da dire ”molto rumore per nulla”. Questo solo a livello di riscontro mediatico, appunto, giacché il disco è piuttosto bello. E persino importante, come si diceva un tempo.
I primi spiazzanti minuti di Double Negative
Disco bello dunque, eppure spiazzante soprattutto nei primi minuti. Quorum fa infatti pensare al frastuono ripetitivo (e fastidioso) della traccia finale di certi vecchi vinili (**). Quindi, dal fosco groove ecco che provano a liberarsi, come Prigioni michelangioleschi, le voci… Solo al terzo brano, Fly, Mimi Parker riesce infine a dominare i suoni e pronunciare parole del tutto intelligibili. Questo dopo essere passati attraverso le percussioni ossessive e spettrali di Dancing And Blood (una cosetta alla Scott Walker, tanto per dare l’idea).
Più avanti, in Always Up, sempre Mimi canta “I Believe, I believe, I believe/ Can’t You See, Can’t You See, Can’t you see”, un chiaro messaggio di speranza. A questo punto appare evidente come l’idea-base di Double Negative sia il difficile equilibrio fra utopia e distopia, dove a pesare di più pesante è, alla resa dei conti, la seconda, come conferma l’ansia meccanizzata della conclusiva Disarray.
Il valore etico della distorsione secondo i Low
Detto ciò, occorre comunque precisare che il trio di Duluth non si allontana del tutto dagli ormai remoti esordi slowcore e da quel tipico andamento solenne che fa pensare a un inno religioso raggelato dal vento del Minnesota. Le distorsioni, il noise, l’uso dell’autotune e il canto rallentato, ovvero le novità di Double Negative, sono un modo per esprimere con il suono un disagio verso il presente da parte di un gruppo mai ‘politico’ ma che già in Drums And Guns (2005) aveva messo in musica la sciagura bellica irachena.
Double Negative non è opera di facile ascolto, questo è chiaro, eppure è un album a cui si ritorna anche solo per aspettare i momenti dove tutto diventa limpido, oppure per non sentirsi soli nel disagio verso ciò che si ha intorno. Lo si può considerare il fratello esistenzialista di un lavoro esplicitamente anti-trumpiano quale Songs Of Resistance 1942 – 2018 di Marc Ribot. La resistenza musicale si sta dunque organizzando in forme articolate, anche se resta da chiedersi, con Claudio Lolli, “a cosa può servire una chitarra”. Magari il rumore serve di più, vai a sapere.
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(*) Nel caso di Plastic Ono Band, nell’album non si ascoltava molta melodia, ma era la presenza del grande melodista beatlesiano John Lennon a suscitare turbamenti.
(**) C’è da chiedersi se qualche acquirente di Double Negative nell’edizione ‘Loser’ a 33 giri non l’abbia riportata al negoziante come difettosa. Più probabile che si sia affidato, per smentire i suoi timori, all’annessa versione scaricabile – vantaggi della modernità. A proposito di edizione in vinile, il quarto brano, Tempest, suona esattamente come quando la puntina è sporca di polvere e non sta più sui solchi…