Phosphorescent e la vita che (ogni tanto) è bella.

A volte il fascino di un disco viene percepito nei contesti più improbabili e, in apparenza, meno appropriati. Ad esempio quello che si sta per raccontare. E’ finito da poco il concerto di Steve Wynn e Chris Cacavas. Performance splendida, atmosfera frizzante, brusio di conversazioni sorridenti. Dagli altoparlanti arriva una canzone che si percepisce appena. E’ C’est La Vie No. 2 di Phosphorescent ed è perfetta per fare da colonna a un momento così piacevole con il suo groove interiore che a poco a poco diviene avvolgente e, parola chiave, rassicurante. Magari, a livello subliminale, ha reso tutti ancora più felici per la serata.
Dopo questa piccola folgorazione è inevitabile recuperare l’album contenente la magica canzone (il titolo è quasi omonimo: C’est La Vie) e riascoltarlo con orecchio nuovo. A titolo di cronaca l’orecchio vecchio diceva: disco carino ma un po’ svagato.
C’est La Vie: un album rassicurante. E anche utile
Inutile precisare che il nuovo approccio cambia un po’ la situazione. Se la title-track già si staglia come uno dei pezzi più belli del 2018, anche le altre canzoni, per quanto meno somme, emanano una luce, come si diceva rassicurante, rendendo C’est La Vie disco bello e, soprattutto, utile. In un momento in cui così tanti artisti ci immalinconiscono, ancorché costruttivamente (*), parlando dei problemi propri (William Fitzsimmons, Mount Eerie) o di quelli del mondo (Marc Ribot, Cowboy Junkies), Phosphorescent spiega che, a volte, c’est la vie è l’unica cosa da dire, ma che la vie, con i suoi alti e bassi, vale la pena di essere vissuta.
Vero è che proprio Phosphorescent (all’anagrafe Matthew Houck) ha scritto il suo album più bello (Muchacho) in un momento molto difficile, ma è altrettanto vero che, da Beethoven in avanti, la musica triste colpisce più di quella gioiosa. Ben vengano dunque sia la nuova vita finalmente felice (a Nashville) di Houck, sia un disco che riesce a raccontare un percorso dalla difficoltà alla serenità senza essere banale anche quando si arrischia in situazioni ad alto rischio di cliché tipo le brezze caraibiche di New Birth in New England o le ondulazioni da culla con bimbo dormiente di My Beautiful Boy.
I ‘maestri’ di Phosphorescent
Fatta eccezione per la prolissa semi-jam di Around The Horn, il suono risulta compatto, avvolgente e, come ovvio, rassicurante. D’altronde i referenti sono piuttosto classici: New Riders Of The Purple Sage, Michael Nesmith, Jimmy Buffett e l’amato Willie Nelson. E’ anche un suono curiosamente adatto a tutti i climi, dal cielo sereno di Christmas Down Under al possibile preannuncio di tempesta della conclusiva Black Waves / Silver Moon. Che si tratti delle prime minacce alla felicità duramente conquistata? No, Matthew, dai…
(*) Il concetto è derivato dal titolo dell’album Costructive Melancholy – 30 Years of Pearls Before Swine.
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