I Porcupine Tree lasciano o continuano (e intanto hanno fatto un gran disco: Closure / Continuation).
Stanchi, manieristici, ripetitivi: lo erano nel 2009 i Porcupine Tree del penultimo album The Incident. L’originale energia creativa sembrava ristagnare negli anni Novanta, quand’era stato fissato il valore classico, atemporale, d’uno stile sincretico e cosmico. Occorreva un cambiamento e Steven Wilson, l’ex adolescente che sognava di diventare un musicista rock e che aveva fondato i Porcupine Tree praticamente per scherzo, l’attuò dedicandosi a un brillante percorso solista, per di più continuando una serie di collaborazioni e inventandosi una seconda attività rimasterizzando i dischi più prestigiosi del rock progressivo britannico.
Un percorso accidentato conduce i Porcupine Tree a Closure / Continuation
Sei anni dopo, sostenendo che il grande album appena realizzato, Hand. Cannot. Erase, fosse la migliore musica della sua carriera, Wilson disse anche che ritornare ai Porcupine Tree sarebbe stato un passo indietro. Ma si guardò bene dal decretarne lo scioglimento. Proseguiva infatti, senza alcun vincolo contrattuale o di tempi, a sperimentare con Gavin Harrison e Richard Barbieri. Composizioni senza nome si accumulavano in archivio: PT2012, PT 2015, PT2018 …
All’inizio dello scorso anno Wilson dichiarò che, si, i Porcupine Tree sarebbero potuti tornare. A novembre, con il singolo Harridan e i concerti negli Stati Uniti e in Europa, fu annunciato per il 24 giugno scorso l’undicesimo album in studio. Senza Colin Edwin, il bassista australiano sostituito dallo stesso Wilson: dal vivo lo farà Nate Navarro. E Randy McStine suonerà la seconda chitarra.
I contenuti del disco
Closure / Continuation, titolo che allude alla possibilità che presto i Porcupine Tree ragionino se concludere la loro storia o proseguirla, è tanto caratteristico da sembrare quasi prevedibile nella sua strana magia. Lo è per la ricchezza dei suoni e della ritmica di Harrison, che fa parte anche dei King Crimson e si sente. Risalta la cura certosina, complici i tempi dilatati dalla pandemia e la mancanza di obblighi anche dei musicisti verso sé stessi, con cui la rinnovata creatività e la perizia tecnica risultano distribuite in quello che non è un capolavoro, ma un gran disco sì.
Il “sogno stupido”, titolo programmatico d’un loro celebre disco d’antan, di far vivere e diffondere una musica dalle contaminazioni illimitate, finisce così per concretizzarsi, sia pure all’interno di strutture formali rigide, indispensabili al senso espressivo attuale: sono lontane le aperture spaziali di The Sky Moves Sideways, il lavoro più eclettico e sognante. E se sia rock progressivo l’alternanza di melodie psichedeliche e suggestioni aspre, arrangiamenti complessi e sonorità dirette, tecnicismi e raffinatezze, di fronte a un album che restituisce la fiducia nel potere catartico della musica diventa una mera questione nominalistica.
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