Dedicato ai minatori: Steve Earle & The Dukes – Ghosts Of West Virginia.

In copertina il piccone spezzato e il casco protettivo. Tutt’intorno, segnati su una mappa, i nomi delle principali cittadine della Virginia Occidentale. In basso, un minatore, la scritta Montcoal e 29 croci piantate nel terreno. Sono le vittime dell’esplosione della miniera Upper Big Brench, avvenuta il 5 aprile 2010. Ghosts Of West Virginia, ai quali Steve Earle dedica il suo ultimo lavoro. Schiena diritta, come l’intera produzione del Comandante. Un album dedicato a uno dei lavori più duri e sfiancanti per l’uomo, che da sempre ha ispirato la produzione popolare americana.
La tradizione musicale americana alla ribalta
È il gospel Heaven Ain’t Goin’ Nowhere che apre il disco. La voce di Earle è sempre più roca, perfetta per il sottosuolo che si appresta a descrivere. «Back Bent Double By A Ponderous Load (I Reckon Heaven Ain’t Goin’ Nowhere)», è già tutto chiarissimo. Union, God And Country mette al loro posto altri pezzi di puzzle: «When You’re Born In West Virginia, A Miner Through And Through Union, God And Country Was All You Ever Knew». Il brano è un classico country, quasi bluegrass. Avanza veloce e diritto lungo i binari tracciati dal ritornello. Devil Put The Coal In The Ground è un blues primordiale e ipnotico su una base ritmica che pare venire davvero dalle profondità della terra.
È il diavolo che ha seppellito il carbone; ha detto che un giorno diverrà diamante, ma «You’ll Be Long Gone And Dead Anyway». Sarai morto, proprio come John Henry (sì, proprio lui, quello famoso della ballad tradizionale). Earle lo seppellisce «with His Hammer By His Side». Per il resto John Henry Was A Steel Drivin’ Man rispetta, musicalmente, l’andamento traditional e rientra a pieno titolo come esempio delle numerose ‘varianti’ che può avere la ballad e che Portelli ha esaminato di recente in riferimento al brano A Hard Rain’s A-Gonna Fall di Bob Dylan.
Omaggio alle vittime della Upper Big Brench
Con Time Is Never On Our Side cambia il clima. Un brano malinconico, su un giro di chitarra standard e un testo pieno di immagini e visioni. I Dukes sono in gran forma anche nei brani più riflessivi. Alla fine di It’s About Blood, Earle fa i nomi delle 29 vittime dell’esplosione. Il suo personale omaggio alla tragedia. La splendida If I Could See Your Face Again è cantata da Eleanor Whitmore, nei Dukes anche come violinista. Il country venato di blues di Black Lung e quello quasi boogie di Fastest Man Alive, che ricorda certi brani di Springsteen, portano il disco verso la conclusione. E forse l’unica pecca del lavoro è proprio la sua durata, poco meno di mezz’ora. Si chiude con The Mine. Earle pare cantare quasi alla fine di una lunga giornata. I sogni possono avverarsi, nonostante tutto, soltanto se ci sarà un lavoro, lì giù, in miniera: «And Hey Babe, We’ll Ride In Style That Day Babe, Down The Main Street Mile It’s Gonna Get Better When Brother Gets Me On At The Mine».
Ghosts Of West Virginia: un disco coraggioso per Steve Earle & The Dukes
Scelta non facile quella di Steve Earle. In piena era Trump, lui, da sempre ‘contro’, pesca un tema radicato nella tradizione popolare americana come Leitmotiv dell’intero disco. E tuttavia non abbandona la protesta; prende soltanto una strada diversa. Allora si sente quasi il rimpianto per un passato che non c’è più. Ma che, nella sua fatica quotidiana, certamente era più limpido del futuro buio e nebbioso verso il quale sta correndo il presidente in carica.
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