The Delines: in The Sea Drift tornano gli antieroi raccontati da Willy Vlautin.
Ci vorrebbero non uno, ma almeno dieci speciali per spiegare al pubblico italiano quanto importante stia diventando sempre più Willy Vlautin per la cultura americana. Noto (sempre troppo poco, purtroppo) nel mondo musicale per la sua creatura ormai abbandonata nel 2016 (i Richmond Fontaine, una sorta di appendice ancor più letteraria della lezione degli Uncle Tupelo), Vlautin è diventato uno dei più importanti e prolifici romanzieri statunitensi, vero e proprio erede di una tradizione alla Steinbeck fatta di province desolate e antieroi in fuga. Ma se ad un certo punto pareva quasi che il mondo della musica non fosse più di suo interesse, ecco che un progetto nato quasi per caso come i Delines lo ha riportato in prima linea.
The Delines: una breve cronistoria
Eppure ai tempi del loro esordio, l’ancora molto consigliabile Colfax del 2014, la sigla doveva servire a lanciare più che altro la vocalist Amy Boone, già nel giro dei musicisti da tour dei Richmond Fontaine fin dal 2003. Ma ora che siamo arrivati al quarto album (dopo Scenic Sessions, distribuito solo online nel 2015, e The Imperial del 2019) è evidente che l’ensemble, ormai assestatosi in una numerosa formazione di sette elementi, ha assunto un ruolo stabile e di primo piano nel mondo della musica americana più legata alle radici. Di fatto anche questo The Sea Drift (Decor/Audioglobe) non cambia le carte messe in tavola dai suoi tre predecessori, puntando su un suono etereo, cinematografico (gli strumentali The Gulf Drift Lament e Lynette’s Lament parlano chiaro in questo senso), ma soprattutto sempre appoggiato sul sensibile tocco di Vlautin nella composizione dei brani, piccoli episodi di una ipotetica serie tv sul tema della fuga nella cultura americana, topic che pare essere ancora ben attuale nell’imaginario d’oltreoceano.
Musica e storie di The Sea Drift
Musicalmente, oltre alla voce della Boone, rinfrancata dopo il brutto incidente d’auto che l’ha tenuta ferma per tre anni, è però Cory Gray il vero perno su cui poggia tutto, sia quando puntella i brani con le sue tastiere dando un tocco quasi soul, sia quando li ricama con la tromba. Non è certo un disco per chi cerca energia, anzi, più si addentra nella parte centrale, più rallenta e si fa sognante, con un rimando sonoro che può anche rievocare il country da camera dei Cowboy Junkies dei tempi d’oro. Ma sono ancora una delle poche band che pensa la musica come racconto, che crede nella letteratura come base di un testo e che le canzoni migliori siano quelle che parlano di noi, di un mondo, di una nazione e di una maniera di vivere e lo fanno attraverso personaggi di fantasia che non hanno mai nulla di particolare se non vivere intensamente la loro voglia di riscatto, o semplicemente il loro modo di arrendersi ai rimpianti e alla malinconia. Quello che questo album ha reso perfettamente.
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